È nato in Marocco nel 1987 da una famiglia molto povera.
A undici anni è arrivato in Italia attraversando lo stretto di Gibilterra con i familiari per raggiungere i suoi fratelli che già vivevano e lavoravano a Torino.
Da solo si è sempre arrangiato vendendo accendini e fazzoletti.
Mai fastidioso, sempre gentile. Anche quando la vita è stronza. In fondo la vita è un dono.
Finisce le scuole e si iscrive all’università. La famiglia non può permetterselo, ma lui ci vuole andare a tutti i costi. Non molla.
Sempre vendendo cianfrusaglie, riesce a pagarsi gli studi e si laurea al Politecnico alla triennale in Ingegneria, rispettando i tempi. Ma sa che non basta.
È difficile per gli italiani, figurarsi per il figlio di nessuno con la colpa di essere straniero.
Ma chi se ne frega, si sarà detto. E poi c’è la signora Chie Wada, 51 anni, giapponese, la “mamma adottiva”, a sostenerlo.
Chi lo ferma? Insiste e rilancia. Si iscrive alla specialistica. E continua a vendere accendini. Ormai anche i suoi compagni e professori tifano per lui. Lo aiutano e lo sostengono. Magari comprano un accendino anche se non serve, ma sanno che valore ha. Un euro qui, un euro lì. Tanti poco che fanno un assai. E altri due anni sono passati. La tesi è finita: “Gli effetti dei nanomateriali di carbonio aggiunti ai compositi di cemento”. Ieri il conseguimento della laurea specialistica.
Ad applaudirlo, oltre ai quattro fratelli e Chie Wada, anche la mamma Fatna arrivata per l’occasione dal Marocco.
Penso alla felicità e all’orgoglio di quella donna che ha rinunciato a godersi il figlio pur di vederlo un giorno sorridente con la corona di alloro in testa. E quel giorno è arrivato.
In bocca al lupo e buona fortuna Rachid.
Anzi, Dottor Rachid Khadiri Abdelmoula.